Fa un strano effetto star sul punto di entrare nel padiglione uruguayano della Biennale e vedere le tre persone che ti precedono rigirarsi nell’ingresso dopo aver dato una breve occhiata all’interno per uscire immediatamente, tranquillamente, senza la minima esitazione.
Quale opera può suscitare una reazione così immediata? Perché non si tratta nemmeno di rifiuto, i tre visitatori si sarebbero per lo meno scambiati un gesto di negazione. Un cenno di connivenza. A meno che l’opera sia danneggiata? Coperta da un telone o transennata in seguito ad un problema strutturale del padiglione stesso?
Entro. E penetro in una sala bianca in cui invece… non c’è niente.
Per lo meno non vedo nulla sulle prime. O forse sì, ma non distinguo bene. Allora mi avvicino. Inizio a scorgere incollati al muro dei ritagli di carta bianca su sfondo bianco: forme piccolissime, geometriche, lievissime ricoprono le pareti.
Ma cosa rappresentano? Un paesaggio urbano visto dal cielo? I circuiti di un sistema informatico? Nessuna spiegazione se non la chiara volontà di non mostrare tutto, di botto, al primo sguardo. Devi entrare e guardare. Cercare. Sapendo, o comunque te ne accorgi ben presto, che non vedrai mai la totalità del lavoro anche se ci passi ore filate perché, per esempio, i ritagli vicino al soffitto sono troppo alti.
Ecco, questa calma, questa gentilezza, questa generosità nell’esecuzione dell’opera. E poi questo lavoro ipnotico e concettuale, sì, ma in cui il concetto è organizzativo, organico, non un riferimento esterno a mo’ di giustificazione. Che bella emozione.
Sono rimasto lì. Un po’. Un po’ tanto. Ed ho cercato il cartellino con il titolo dell’opera: Global Myopia di Marco Maggi.
Bruno Gaudens
Inviato VAM da Parigi