Un grimaldello fra tanti altri
di Alberto Balletti
“Lo scrivere non è semplicemente comunicare, trasporre o tradurre qualcosa che esisterebbe a priori nello scrivente, ma seguire, attrarre, distrarre, dislocare, cancellare, riprendere ciò che potremmo definire forse un materiale informe che si chiarisce, si compone, nel suo stesso farsi, “durante”, fino a un risultato che è esso stesso una scelta, tanto casuale quanto soggettiva, fra altre scelte possibili…” Roberto Sanesi 1975
Scrivo da artista.
L’artista è un vuoto incolmabile, il calco di una persona qualsiasi, il rivestimento, l’impronta. La replica originale. La firma di un assegno in bianco, scoperto.
Come riporre in queste mie parole fiducia, se inizio smentendo?, A rebours! Bisogna essere disposti ad espirare senza inspirare. Il solo modo di credere ad un artista è amare il suo vuoto, la sua assenza. Egli non è, e fa di tutto per non essere nemmeno l’essere. Sparire per lasciare apparire. Moltiplicare per rendere unico l’esemplare. Utopia del singolo diffuso, autografo apocrifo. Oblio recitato a memoria. Operatore dell’inoperabile guasto del gusto. Non c’è dolo nella fabbrica degli specchi e, se il minotauro ucciderà se stesso, il suo suicidio non sarà imputabile al fabbricante di vetri riflettenti. Non è l’arte che muore, ma solo chi sfugge alla sua trappola. Strano tipo di trappola, una tagliola ospitale dove tutto è il doppio, l’altro da sè. E’ l’artista che parla, svela, espone e accoglie, fuori da sè, ride della sua eccezione. Ma solo quando il suo lavoro è compiuto, affidato a tutti, egli ride. Solo allora. In questo mio scrivere, reo di incarnarmi dentro panni che non dovevano vestirmi, mi ritaglio una parte da critico e curatore che vìola le regole. E parlo da artista per mettere a fuoco un percorso utile a districarsi attorno al senso del fare arte, nell’ottica della decodificazione del suo prodotto “inutile”. Dalla stravaganza di questa mia posizione offro un grimaldello possibile tra cultura e critica estetica.
De Portesio 2007 propone, proprio nella eterogeneità degli artisti invitati, una possibile apertura, una indicazione di percorso: quello degli incisori che propugnano la tradizione delle tecniche delle stamperie vicino a quello dei fotografi e, su questi passi, verso l’arte interattiva, e al video digitale. Ma ciò che appare forzato oggi, domani sarà libera scelta. Ora ritenere che non si possa trascindere dai mezzi di comunicazione massivi e digitalizzati, proteggendosi in un “a prescindere” che depenalizzi la scelta del mezzo usato per esprimersi, rimane certo libero arbitrio. La scelta del media tecnologico, anche quello tradizionale vale ancora, necessita dell’abilità dell’artista d’illuminarlo di nuovo, nella autocertificazione di responsabilità che questo implica. La dimensione etica dell’arte è imperitura. Senza qui elencare i loro nomi, abbiamo riprodotto nella prima parte di questo catalogo le opere di artisti che credono nelle tecniche segniche della grafica d’arte. Nella seconda parte le opere di artisti più giovani che si confrontano con i liguaggi digitali. Per concludere, la terza sezione, dedicata ai video digitali prodotti da studenti di Accademie di Belle Arti e Scuole di Cinema. Le tre sezioni del catalogo, sono diaframmate da due omaggi: a Roger Vieillard, bulinista che attraversa tutta l’esperienza incisoria francese (Atelier 17) e Guglielmo Achille Cavellini, eclettico trans-navigatore di linguaggi della seconda metà del secolo scorso.
La relazione moderna dei linguaggi artistici con le tecniche di riproduzione di esemplari multipli, dai caratteri mobili all’analogico, dalla banda magnetica al dvd, nell’impulso espressivo che le tecnologie hanno sempre apportato alla semantica artistica, rientra nella libera scelta degli strumenti che l’artista individua e fa suoi, nell’assolvimento di un opera che sente impellente, e che, nella realtà del quotidiano in unica copia, regala ai cittadini del mondo, senza la sicurezza di un uso pratico o immediato. L’artista, spesso non dichiarandolo per questioni di “immagine”, affronta il doppio: della tradizione e della contemporaneità. Sia quando si schiera per l’una come per l’altra, di frequente omette il percorso formativo con cui l’ “ultima novità” delle scienze tecnologiche viene trasfomata in tecnica d’arte grazie all’interiorizzazione del potenziale ancora inesplorato. L’artista svela, aggiungendo al vagare vacuo della vita, la sua fede al suo segno alienato. Per questo vi invito a condividere l’opera d’arte nella illogicità egoica apparente e tranquilla dell’artista, così come lui stesso la vede: nel suo tentativo di essere multiplo, una specie di anti-clone, mai replicante, come una cosa che asserisce di suo in primis, moltiplicando, nel rispetto della fonte, un oggetto edulcorato che comunica qualcosa che potrà adattarsi agli eventi, ma non si assoggetterà a nessun ordine. Rileggendo ciò che le innovazioni tecnologiche apportano costantemente al potenziale espressivo dell’essere umano, potremo trovare il grimaldello per inchiavare il doppio significare dell’opera. L’opera non chiede condivisione. Propone. Questo primo passo ci connette a un parallelo modo di intendere e contendere che sottostà ancora alle antiche leggi della logica, senza anacronisticamente rifiutare la dimensione overlapping (multistrato) del contemporaneo.
In questo secondo passaggio vorrei sbaragliare l’idea convenzionale ed esausta del concetto di copia. L’opera diversamente ci interroga e il mutiplo per antonomasia moltiplica non copia: è esemplare. Vale la pena di accettare le idee che tutte le opere d’arte avanzano, nella loro dichiarata originarietà oltre la riproducibilità tecnica. Fuori dai vincoli dei luoghi stereotipi ove recitiamo la nostra lasciata o perduta identicità ripiena di scarti.
Lo snodo della qualità è supremo e difficile. Solo il tempo decide per noi, fuori dalle mode. Lo si può tra-guardare nelle opere di questa Mostra in una prospettiva di attraversamento della tradizione nella molteplicità dei significati di cui è intrisa. Oserei dire finalmente liberi, di nuovo saltimbanchi dell’intelligenza. Preferisco ammettere il danno. L’uomo d’oggi è figlio del crollo della personalità monolite del sapere, è messo in crisi dai nuovi mezzi di comunicazione e di elaborazione dei dati a grande distanza in tempo reale, che proprio nella logica dell’audiovisivo ha dato luogo a una profonda frattura nell’ereditarietà dell’identità culturale. Preferisco conciliare dopo il crash. Datemi il modulo della constatazione amichevole!
La tradizione richiedeva una sequenza discorsiva basata sul ragionamento analitico, ma questa stessa sequenzialità viene minata dall’apparire dell’immagine in movimento, che, ricorrendo all’icona sintetica, esalta il momento emotivo immediato, nell’intuizione pura. Rischiando così di esporre ad uno straordinario effetto ipnotico l’utente-spettatore. I giovani artisti lavorano in laboratori dove l’arte è meticcia, perchè sanno che i frutti puri impazziscono. Possibilità multiple, ricche, anche contraddittorie, si offrono oggi al singolo al di sopra e al di là dei vincoli del principio di non contraddizione. E’ caduta la cesura, tradizionale e invalicabile, tra realtà attuale e realtà virtuale: di questo possiamo solo prendere atto. E sarebbe ora di approfittare dei progetti artistici che lo rivelano in modo adamantino. Il pezzo d’arte scompone la certezza in microfibre da ricontrollare. Questo è il messaggio. E’ necessario un moto oppositivo e di resistenza tale da rendere l’individuo, già multiplo di se stesso nella realtà virtuale, reincontrabile, ospitabile. Necessitiamo di un appuntamento reiterato perchè perdibile. In aggetto. Dove, dopo essere stato esposto al processo mediatico, il nostro veicolo irrorato e pulsante, il nostro corpo/reo, non definitivamente sgretolato, ma arricchito da uno specchio vergine, di nuovo, come Narciso, annegabile a sé, possa toccarsi. L’arte bifronte specchiandoci annega l’ombra di noi stessi.
Non mi spaventa se fra le righe si potrà leggere una inclinazione alla “riduzione del danno”. Io amo gli angoli dei muri smussati dal vento e dai camion che li forzano, così come amo i solchi sulla pelle, che riproducono e dicono le più care pagine della nostra effimera presenza segnata sul registro dell’unica volta che ci è dato di vivere. Autoritratti “alla faccia” di noi stessi, nei nostri singolari corpi generati come unici oggetti irriciclabili. Lasciamo solo qualche chilo di residuo biodegradabile assieme ad un intricato senso attribuibile. Io amo l’utopia del multiplo: a ogni impressione un numero originale. Liberi da tatuaggi, liberi di arrugarci. Ripetuti e ripetibili come incisi all’immortale. Siamo solo solchi, ingordi di anoressia.
Incidere oggi è ancora fare e non lo è per voluttà, non provoca emorragia, provoca e basta. Avoca alla mano la reale presa che non si vuole far sfuggire nell’effimero. Il metallo della matrice registra il soffio della sfinitezza, mentre il DVD non trascura le nostre perplessità. I supporti scelti dagli artisti registrano il silenzio. L’arte sopravvive eternamente a se stessa impennandosi nell’esemplare multiplo. Contraddicendosi.