L’amore del segno grafico per l’impossibile emulazione del reale corporeo:
il ri-corpo
[1]
Ripartiamo dal 1992, quando Jeffrej Deitch organizzò una mostra dal titolo Post-Human. In quella occasione Deitch teorizzò la fine di una fisicità organica a favore di una sostituibilità tecnologica delle fisiologicità corporee (in estrema sintesi concetto reso dall’efficacia e dal successo del titolo stesso), la protesi come artificio creativo, il riscatto dell’artificiale come ipervitale. Molti artisti diedero forma e positività a questo accadimento. Non tutti. Ci fu una sensibilità che fece sopravvivere oltre e ancora il “superato” biologico: rimanendo sensibile al corporeo e al dolore (nonchè al piacere che del dolore è una variante). Già allora (il mio lavoro degli anni ’90 ne è testimonianza in diretta) avevo diffidenza nell’aderire a certi entusiasmi e prevaleva in me una visione politica di un corpo spossato da altre macchine, quelle da Guerra (queste si protesi impastate come Golem, mostri d’argilla).
[2]
Altri assieme a me, ben accorti, introdussero subito il dubbio, implicito alla sensibilità animale, della precarietà dell’asserzione di assoluta fede nel tecnologico. Narici dilatate contro puntatori notturni. Si sentì in questi infedeli della rivoluzione cybernetica, la denuncia di un atto intellettuale di estromissione del dato corporeo rispetto alla classicità residua del corpo performatico e al tempo stesso la vertigine di una sconfitta seppure velata dalla orgogliosa traccia ironica della iconica disfatta. Ero fra loro. E Sarajevo, assieme alla sua immensa biblioteca, andava in fiamme. E le tempeste nei deserti del medioriente erano già state arricchite di uranio.
In quel periodo si era consumato, si era chiuso un ciclo di ricerca sul tema del corpo umano molto ampio e vario nella tematica delle arti visive che “attenzionavano” i “fruitori” con metafore di fisicità corporee come stili di vita contrapposti alla “moderna tradizione” sacrificale che dal corpo richiedeva standard performatici di produzione. Semplicemente terminava l’opposizione al consumismo del corporeo a vantaggio del prodotto di massa e la comunicazione cessava definitivamente di essere condivisa. Tutto diventava globale e incluso nella vera protesi ex/posta. La parabola degli anni settanta veniva a calcifificazione compiuta e per l’affresco, purtroppo incompleto, era finito il tempo. Il corpo rimase intrappolato e ne fece le spese. Insaccato in se stesso dentro una seconda pelle, lasciando via libera al cyber anni ’90.
Ripensiamo alla parabola intracorporea che dalla body art e dalla video art anni settanta fluttua la sua curva in aggetto fino alla digital art degli anni novanta, in controverse valutazioni di valore del tessuto epidermico, centrando l’essere carne della materia grigia come residuo della fisicità anatomica nell’identità digitale. Poco tessuto ma tanta acqua. Oggi che ci ritroviamo come nei campi elisi del secolo scorso, nella ripetizione di un periodo storico ricco intellettualmente di battaglie perse, rischiamo di incorrere nella incapacità di affrontare il suo stesso oltre. Il radicalismo fu cannibale di se stesso .
[3]
Essere dentro questo progetto espositivo ha e trova senso perché non cademmo allora, e tanto meno siamo disposti a cadere oggi, nell’errore di tornare con nostalgia all’agorà incorporea dove massimo potere e massima incorporeità vigevano come estremo sforzo di comprensione dei sistemi concessi al sapere.
Il “non luogo” corporeo dei social network e delle svariate second-life attuali ha reso in tutta tranquillità superate le opposizioni critiche del Post Human, e nella stessa spallata, senza sforzo ulteriore, vi ha messo la sordina. Il secolo scorso è lontano, allontanato, comodamente distante. Privati definitivamente degli ingombranti “ismi” movimentisti del secolo XX, senza ulteriori neologismi ci possiamo permettere di rinominare l’innominato: il corpo di carne. Nessuna macchia. Ogni gesto è segno verso un corpo spodestato che ci attende. In carne. Testimone senza sforzo della necessità di continuare la nostra utopia di artisti che incidono e disegnano. E che non saranno mai designati. Segno e gesto personale perpetuato. Un sogno che astrae il dato percettivo e ottico rendendolo vivido.
[4]
Questa mostra impone una trasversale visione accettando criticamente le contaminate visioni pop della rappresentazione del corpo a cui iniettare una rinnovata necessità di fare. Necessità del fare. Anche di rifare. Rinnovare, come tradizione vuole, rivedere, sotto-sopra, retro-verso, fronte-retro. Dentro. Di nuovo.
Testimoni della integrità stessa del corpo perduto ai mass media, gli artisti si rifanno artefici, giorno dopo giorno, verso un futuro rivisto. Spesso per riporre il “ricorpo” in un gigatesco déjà vu. Di frequente persi e incompresi testimoni, senza più uno straccio di romanticismo lenitivo. Riemerge una residuale possibilità di rappresentazione del corpo (reo di sé), che pur assistendo alla sua ultima (cronologicamente) esposizione classica, è conscio di essere residuale a sé, ma risolto nella sua stessa svendita. Attraverso il corpo e il gesto dell’artista.
Il Corpo Ex/Posto.
Prof. Alberto Balletti
aprile 2010